Lo svolgimento delle attività di affittacamere, bed and breakfast e locazioni brevi all’interno dei condominii impone un approfondimento in relazione ai limiti e ai divieti che l’autonomia privata può fissare alle destinazioni d’uso delle proprietà esclusive.
Sotto questo profilo occorre anzitutto evidenziare come solo un regolamento contrattuale (cioè un regolamento formato con il consenso unanime di tutti i condòmini ovvero predisposto dal costruttore e accettato dagli stessi condòmini nei loro atti di acquisto) possa – come chiarito dalla giurisprudenza – contenere limitazioni ai poteri dei condòmini e ai loro diritti sui beni comuni e sulle proprietà individuali (cfr., ex multis, Cass. sent. n. 1195 del 6.2.1987).
Ciò posto, con riguardo alla questione che ci occupa, si segnala una sentenza della Cassazione (la n. 109 del 7.1.2016), con la quale è stata negata la possibilità di svolgere attività di affittacamere in un edificio condominiale il cui regolamento contrattuale conteneva la seguente clausola: “È vietato di destinare gli appartamenti ad uso di qualsivoglia industria o di pubblici uffici, ambulante, sanatori, gabinetti per la cura di malattie infettive o contagiose, agende di pegni, case di alloggio, come pure di concedere in affitto camere vuote od ammobiliate o di farne, comunque un uso contrario al decoro, alla tranquillità, alla decenza ovvero al buon nome del fabbricato”.
La pronuncia è di particolare interesse, in primo luogo, perché esamina gli effetti – sulle destinazioni d’uso delle proprietà esclusive – di una clausola invero molto comune nei regolamenti più datati. In secondo luogo, perché in essa si afferma che “ontologicamente” la suddetta attività di affittacamere “è del tutto sovrapponibile – in contrapposto all’uso abitativo – a quella alberghiera e, pure, a quella di bed and breakfast”.
Un’osservazione, quest’ultima, in linea con precedenti pronunce in argomento (cfr. Cass. ord. n. 704 del 16.1.2015, e Cass. ord. n. 26087 del 23.12.2010) ma in contrapposizione ad un altro orientamento giurisprudenziale – sempre di legittimità – secondo cui l’esercizio dell’attività di affittacamere, così come di bed and breakfast, “non modifica la destinazione d’uso a civile abitazione degli appartamenti in cui è condotta”, con la conseguenza che, anche in presenza di un regolamento contrattuale che “vieti di destinare gli appartamenti «ad uso diverso da quello di civile abitazione o di ufficio professionale privato»”, l’attività in questione è da ritenersi comunque “consentita”, essendo, altresì, “inammissibile un’interpretazione estensiva della suddetta norma regolamentare che riservi ai soli proprietari, ai loro congiunti e ai singoli professionisti il godimento delle unità immobiliari site nel condominio” (sent. n. 24707 del 20.12.2014).
In quest’ultima direzione va, peraltro, anche un’altra pronuncia della Cassazione che si occupa segnatamente delle locazioni brevi (sent. n. 22711 del 28.9.2017); pronuncia nella quale si afferma che laddove il regolamento condominiale vieti “di destinare i locali ad uso diverso di privata civile abitazione” e, pertanto, “di darli in affitto o subaffitto sotto forma di pensione o di albergo”, ciò non incide sulla possibilità di locare per brevi periodi o in modo saltuario, non rientrando tale tipo di locazione nel divieto in questione.
Quanto sopra evidenzia, dunque, come la giurisprudenza offra interpretazioni differenti in ordine a ciò che può farsi rientrare nel concetto di destinazione ad uso abitativo di un immobile e, conseguentemente, in relazione all’applicabilità di eventuali clausole presenti nel regolamento che dispongano divieti o limiti all’esercizio delle attività qua in discorso.
La soluzione, laddove percorribile (ad esempio nei piccoli condominii non ancora interessati da queste attività), è, pertanto, che tutta la compagine condominiale approvi limitazioni e divieti, in punto, chiari e netti. E, per rendere tutto questo opponibile ai terzi (cioè ai successivi acquirenti delle unità immobiliari presenti nel fabbricato condominiale), si proceda, poi, alla trascrizione: ciò che richiederà la predisposizione in forma pubblica ovvero di scrittura privata autenticata del relativo atto (il quale – seguendo una certa prassi notarile – potrà identificarsi nel regolamento, così come integrato, ma anche in un regolamento formato ex novo con inclusa la clausola di interesse, purché in entrambi i casi emergano in modo chiaro, nella nota di trascrizione, le limitazioni incidenti sui diritti dei condòmini).
Sul punto la giurisprudenza ha recentemente chiarito, infatti, che “le clausole contenute in un regolamento condominiale di formazione contrattuale, le quali limitino la facoltà dei proprietari delle unità singole di adibire il loro immobile a determinate destinazioni, costituiscono servitù reciproche a favore e contro ciascuna unità immobiliare di proprietà individuale, e sono soggette, pertanto, ai fini dell’opponibilità ultra partes, alla trascrizione in base all’art. 2643 cod. civ., n. 4, e art. 2659 cod. civ., primo comma, n. 2” (Cass. sent. n. 24526 del 9.8.2022).
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da Confedilizia notizie, settembre ’24
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