Intervenendo nel dibattito avviato dal Sole 24 Ore sulla riforma fiscale, il professor Giuseppe Melis evidenzia la necessità di ridurre la tassazione patrimoniale sugli immobili e di potenziare la cedolare secca sugli affitti.
Qualsiasi dibattito tecnico sulla riforma dell’Irpef, prima ancora che interrogarsi su aliquote e curve di progressività, dovrebbe riflettere su talune questioni di fondo.
In primo luogo, l’Irpef fa ormai parte di un sistema quasi inestricabile in cui le componenti assistenziale, previdenziale e di accesso ai servizi pubblici interagiscono con quella fiscale. Occorre dunque domandarsi se, e in quale misura, un dibattito sulla “struttura” dell’Irpef possa prescindere da una valutazione complessiva di tale sistema (ivi compresi gli altri tributi) e degli effetti solidaristici e redistributivi che già esso realizza, anche tenendo conto delle coperture finanziarie ipotizzate. Le misure dei cosiddetti “80 euro” e del “reddito di cittadinanza”, per le risorse che impegnano, ne costituiscono gli esempi più eclatanti.
In secondo luogo, occorre chiedersi se il ritornello sulla “giungla” di regimi agevolativi abbia un’utilità pari alla frequenza con cui ricorre.
Già la legge 408/90 aveva previsto il riordino delle agevolazioni, ma, da allora, i risultati sono stati modesti. Ciò è anche dovuto al fatto che gran parte delle misure interessate ha natura strutturale anziché derogatoria oppure risponde a principi costituzionali che il legislatore ha “bilanciato” con quello di capacità contributiva. Anzi, vi sono persino assenze importanti, a cominciare dal contrasto alla denatalità, che richiederebbe un intervento robusto a favore di giovani e famiglie.
In terzo luogo, occorre interrogarsi se la contrapposizione tra redditi da lavoro e rendite abbia un senso che non sia solo ideologico.
In quarto luogo, occorre riflettere se sia giusto guardare solo ai redditi medio-bassi, quasi che in vetta si stia in paradiso. Quei pochi contribuenti che dichiarano redditi elevati, si ritrovano – quando non direttamente con i redditi falcidiati ex lege (pensioni c.d. d’oro, massimali retributivi, ecc.) – con aliquote effettive ben oltre il 50%, cui si aggiunge l’Irap ove dovuta e, per i lavoratori dipendenti, l’azzeramento delle detrazioni. Non è un bel segnale che questa manciata di contribuenti debba subire dal 2020 la progressiva riduzione, sino all’azzeramento, di quasi tutte le detrazioni al 19 per cento: se si “entra” in dichiarazione, progressività e personalità devono valere per tutti.
Infine, sul piano più strettamente giuridico, occorre interrogarsi se il problema dell’Irpef richieda scelte anche sul fronte della definizione legale di reddito e delle categorie su cui l’imposta si fonda. Dopo il radicale intervento del 1986 e quelli puntuali del 1997, il sistema pare in realtà aver assunto una solidità giuridica tale da non richiederne altri, salvo ripensare l’ormai anacronistica scissione dei redditi di natura finanziaria tra redditi di capitale e da capitale con le distorsioni sulla base imponibile che ne derivano.
In conclusione, una riforma dell’Irpef sconta la complessità di fondo derivante dal suo inserimento in un più ampio “sistema” comprensivo della redistribuzione mediante spesa pubblica; si deve confrontare con agevolazioni che spesso o non sono tali o trovano una giustificazione costituzionale; è inquinata da argomentazioni ideologiche; interviene su un assetto giuridico che non auspica stravolgimenti.
Non è allora tanto su una riforma dell’Irpef che occorre ragionare, quanto sui due problemi che maggiormente la interessano, vale a dire cuneo fiscale e famiglia: risorse, naturalmente, permettendo.
di Giuseppe Melis
Articolo tratto da Ilsole24ore.com