Come si ricorderà, sull’ultimo numero di Confedilizia notizie abbiamo trattato dell’uso dei beni comuni in ambito condominiale, questione che trova la sua principale fonte normativa nell’art. 1102 cod. civ., il quale prevede, in particolare, che “ciascun partecipe può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca ad altri partecipanti di farne parimenti uso”. Nell’occasione ci siamo occupati di quest’ultimo divieto. Ciò che interessa, ora, è approfondire, invece, l’altro limite posto dalla norma: il divieto di alterazione della destinazione del bene comune.
Occorre, allora, sapere che secondo la giurisprudenza sussiste “alterazione” dei beni comuni solo allorché le modificazioni apportate a tali beni rendano impossibile o comunque pregiudichino apprezzabilmente la loro funzione originaria, e non già quando l’utilità tratta dal singolo condòmino si aggiunga a quella originaria, cioè quando il godimento del singolo condòmino, pur potenziato e reso più comodo, lasci immutata la consistenza e la destinazione originaria (in tal senso, cfr., fra le altre, Cass. sent. 11936 del 23.10.’99). Sul punto la dottrina ha anche sottolineato come non sia indispensabile che la cosa sia attualmente in funzione, in relazione alla sua destinazione, qualora persista la possibilità di ripristinarne l’originaria funzionalità (cfr. AA. VV., Trattato del condominio, ed. Cedam, 2008, 184).
Quanto alla “destinazione” che ciascun partecipe non può alterare, secondo i giudici questa deve essere determinata attraverso elementi economici, giuridici e di fatto (Cass. sent. n. 4397 del 22.11.’76). In argomento la dottrina ha tenuto a precisare come non possa ragionarsi in astratto della destinazione della cosa, per sindacarne l’uso fattone dai condòmini, occorrendo, invece, vedere quale destinazione, in concreto, i condòmini le abbiano riconosciuta ed impressa. In particolare, è stato osservato come questi, d’accordo tra di loro, possano sempre validamente imprimere alle parti comuni una destinazione specifica, anche non conforme alla normale funzione economico-sociale della cosa, e come ogni condòmino, allorché ciò accada, abbia diritto di fare uso della cosa comune in conformità ad essa (cfr. AA. VV., Trattato del condominio, ed. Cedam, 2008, 183).
Chiarita la portata anche di questo secondo divieto previsto dal citato art. 1102 cod. civ., va pure precisato, però, che l’uso della cosa comune da parte del singolo condòmino trova un ulteriore limite, oltre che in un regolamento di condominio di origine contrattuale (nonché nell’ovvia e fondamentale esigenza di non pregiudicare i diritti degli altri comproprietari su beni di loro esclusivo godimento: si pensi, ad esempio, alla installazione di un manufatto che tolga aria o luce ad un appartamento o ne comprometta la veduta), anche nel disposto dell’art. 1120 cod. civ., il quale, al quarto comma, vieta gli interventi che possano “recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condòmino”. Significativa in tal senso è la sentenza della Cassazione n. 10592 dell’11.10.’95, che così testualmente recita: “Perché il condòmino possa, nell’esercizio del diritto di comproprietà, apportare modifiche dirette a una migliore e più conveniente utilizzazione della cosa comune è necessario che non si verifichino alterazioni della consistenza e della destinazione della cosa stessa, che manchi ogni pregiudizio del diritto di uso e godimento da parte degli altri condòmini e, per quanto attiene, in particolare, agli edifici in condominio, che non derivi compromissione della sicurezza e della stabilità del fabbricato e non si alteri il decoro architettonico dello stesso”.
Come già evidenziato in occasione dell’esame del divieto di impedire l’altrui pari uso della cosa comune, si tratta di precisazioni, tutte queste appena riferite, che non possono dirsi superate con l’entrata in vigore della legge di riforma dell’istituto condominiale (l. n. 220/’12) e che, quindi, occorre necessariamente tenere presenti nel momento in cui si discuta dell’utilizzo di parti comuni da parte di un singolo condòmino.
Estratto “TUTTOCONDOMINIO”, Confedilizia notizie, febbraio ’17
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